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...Credo nelle rovesciate di Bonimba, e nei riff di Keith Richards. Credo al doppio suono di campanello del padrone di casa, che vuole l'affitto ogni primo del mese. Credo che ognuno di noi si meriterebbe di avere una madre e un padre che siano decenti con lui almeno finché non si sta in piedi. Credo che un'Inter come quella di Corso, Mazzola e Suarez non ci sarà mai più, ma non è detto che non ce ne saranno altre belle in maniera diversa. Credo che non sia tutto qui, però prima di credere in qualcos'altro bisogna fare i conti con quello che c'è qua, e allora mi sa che crederò prima o poi in qualche dio. Credo che se mai avrò una famiglia sarà dura tirare avanti con trecento mila al mese, però credo anche che se non leccherò culi come fa il mio caporeparto difficilmente cambieranno le cose. Credo che c'ho un buco grosso dentro, ma anche che, il rock n' roll, qualche amichetta, il calcio, qualche soddisfazione sul lavoro, le stronzate con gli amici ogni tanto questo buco me lo riempiono. Credo che la voglia di scappare da un paese con ventimila abitanti vuol dire che hai voglia di scappare da te stesso, e credo che da te non ci scappi neanche se sei Eddie Merckx. Credo che non è giusto giudicare la vita degli altri, perché comunque non puoi sapere proprio un cazzo della vita degli altri.
(Stefano Accorsi)
Bellissimo film...
VINCITORE DI 3 PREMI DAVID DI DONATELLO:
Miglliore attore (Stefano Accorsi), Migliore regista esordiente (Luciano Ligabue), Migliore fonico di presa diretta (Gaetano Carito)
Lambrusco, pop corn e rock'n'roll. Si vive così nella bassa padana, vicino a Reggio Emilia, specie quando a raccontarne gli umori è la chitarra di Luciano Ligabue. Che adesso prova a suonare note simili con la macchina da presa, tenendo sempre alto l'amplificatore. Non è difficile sintonizzarsi sulle frequenze di Radiofreccia, film che il Liga ha tratto da uno dei racconti del suo Fuori e dentro il borgo (Baldini & Castoldi). La stoffa è quella di Ivan (Stefano Accorsi) detto Freccia, uno che negli anni Settanta vive alla grande cazzeggiando con gli amici finché non sceglie di morire giovane, per non diventar mai vecchio. Eroina, overdose, game over. In suo onore una radio libera, ma libera veramente. Ligabue sfrutta un immaginario che entra facilmente negli occhi e nel cuore dello spettatore: scorribande, gnocca, gnocco e alta fedeltà. Le mitologie passano tli bocca in bocca e lasciano il segno, tra echi dei riff di Keith Richards e rimpianti per l'Inter che fu. Facile facile, sì. Ma non banale. Perché questo Radiofreccia è più fresco e autentico della stragrande maggioranza dei film italiani usciti da Venezia. Demolisce il mito della provincia "dei valori" scatenando un horror vacui esistenziale che ognuno cerca di esorcizzare come può. In quegli anni di piombo Freccia, per esempio, lascia presto perdere il rock'n'roll e sceglie la droga. Una iniezione "rivoluzionaria" di brown sugar per lacerare i confini del piccolo mondo antico di guareschiana memoria. E qui Ligabue evita la stecca e colpisce nel segno, se è vero che nell'Italia del 2000 si invoca ancora la censura di fronte a un buco in presa diretta. A par t e qualche ingenuità (quella biglia simbolo di innocenza perduta...), qualche lungaggine e qualche interprete non propriamente all'altezza, Radiofreccia è un esordio interessante. Merito anche del cast tecnico: il Liga è bravo a raccontare di certe notti con la chitarra e con la band ma certo si intende poco di inquadrature e piani-sequenza. Almeno ha l'umiltà di affidarsi a un co-regista (Antonello Grimaldi) e a un direttore della fotografia non alle prime armi (Arnaldo Catinari). Un film leggero dunque, ma nel vestito migliore.
Da Film TV, 27 ottobre 1998
Luciano Ligabue dopo il grandioso successo con "Radiofreccia" torna sul set con un altro capolavoro:
"Da zero a dieci"

Un film di Luciano Ligabue
Con Stefano Pesce, Massimo Bellinzoni, Pierfrancesco Favino, Stefano Venturi
Italia, 2002
Dopo “Radiofreccia” aveva giurato che non l’avrebbe più fatto, ma la necessità di raccontare una nuova storia, e l’entusiasmo pressante del produttore Domenico Procacci, ha riportato Ligabue nuovamente sul set. Nasce così “Da Zero a Dieci”, seconda fatica cinematografica della rock star di Correggio. Un film dal forte contrappunto musicale, con una intensa colonna sonora che mescola classici del rock a pezzi sconosciuti, ovviamente molto blues ma nella sua versione meno popolare, la disco anni 70, il pop, Van Morrison e John Hyatt.
I protagonisti sono quasi-quarantenni dalle vite ordinarie, Giove, Libero, Biccio (Pierfrancesco Favino, davvero molto bravo) e Baygon, che abbandonano Correggio, opulento e sonnacchioso paesino emiliano, per un weekend che li riporti indietro negli anni. La loro meta è la sfavillante Rimini, grande giocattolo della Riviera dove i quattro protagonisti hanno lasciato un conto in sospeso: vent’anni prima, nell’estate dell’80, la loro gita fuori porta era stata bruscamente interrotta. Ora decidono di vivere quell’avventura fino in fondo, anche a costo di sembrare fuori tempo massimo. Così si ritrovano con le amiche di un tempo, organizzano feste di non-compleanno per soddisfare i sogni sopiti di tutti, e anziché annoiarsi l’un latro con i racconti della propria vita, decidono di riassumere i vent’anni di silenzio con un voto: da zero a dieci.
Dopo i trentenni di Muccino, ecco i quarantenni di Ligabue. Anche se Da Zero a Dieci non vuole essere un film generazionale (“mi fa senso il termine ‘generazione’”) i protagonisti testimoniano un disagio comune, anche nella non appartenenza a nessun contenitore o fetta di mercato: la generazione che è sfuggita “ai sondaggi e a Bill Gates”, che ha visto i sogni cadere e le illusioni diventare amarezza. Nella nostalgia generale che pervade il film c’è tutta l’angoscia del tempo che passa tra le mani senza lasciare traccia, il terrore di attraversare la vita e di passare inosservati. Per questo i protagonisti regrediscono fino alla corse in risciò, alle corse nudi per le strade, tornando indietro di vent’anni nel tentativo disperato di portare indietro il tempo e di chiudere il cerchio.
Quando l’amarezza sembra sul punto di trionfare, e si prende coscienza che ciò che è perduto non ritornerà, ecco che invece riaffiora la speranza, e per una vita che muore c’è un figlio che viene concepito. Come nelle sue canzoni, Ligabue seziona al microscopio delle storie sottili e marginali, aprendo varchi profondi ed universali: ci parla di ansie esistenziali, di nostalgie vaghe ma dolorose, di disagi che appartengono a tutti. Ci pone domande inquietanti ma risponde con una pacca sulla spalla. In modo onesto però, con la saggezza consolatoria delle città di provincia, quella del “finché c’è vita c’è speranza”. Perciò non suona né falso né fastidioso il finale sereno che appiana i conflitti, in cui uno dei personaggi può tranquillamente dire: “Ho 35 anni. Vuol dire che me ne spettano altrettanti altrettanto entusiasmanti”.
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Copyright di Marco
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